La libertà è come l’aria” scrive Pietro Calamandrei “ti accorgi di quanto era importante quando inizia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia […] che vi auguro di non sentire mai”. Sebbene la celebre citazione si riferisca alla costituzione e in particolare alle libertà che garantisce la costituzione Italiana ad ogni cittadino, possiamo applicarla ad alcuni aspetti della vita che, come l’aria (o la libertà) diamo assolutamente per scontati, non ci accorgiamo di quanto siano vitali finché non li perdiamo. Quali ad esempio? L’abilità. L’abilità di fare, di muoverci, di pensare e agire liberamente nel mondo, senza vincoli o barriere che ce lo impediscano.
Tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo trovati in una condizione momentanea di limitazione della nostra abilità e libertà: chi si è rotto un braccio, chi una gamba, chi ha avuto la mononucleosi, la varicella, il morbillo e si è dovuto rinchiudere per settimane in casa.
Sappiamo che (se l’avvenimento non è recente) forse non ricorderete come ci si sente, ma facendo uno sforzo sicuramente sentirete quel senso di oppressione, quel pensiero ricorrente specialmente verso la fine del periodo di convalescenza che ci echeggiava in testa “non vedo l’ora che finisca!”.
Pensiamo per un momento a chi non può appigliarsi a questo pensiero, a chi non può vedere una fine alla limitazione della propria libertà e abilità: le persone disabili.
Le persone con disabilità costituiscono un insieme estremamente eterogeneo, con dei bisogni altamente specifici in base al tipo di disabilità di cui si è portatori. Le disabilità sono distinte dall’OMS in 4 tipi: motoria, psichica, intellettiva, sensoriale. All’interno di ciascuna di queste categorie sono, purtroppo, davvero tantissimi i tipi di disabilità che possono verificarsi: ingravescenti (che peggiorano con il tempo), permanenti, a intermittenza (soprattutto dal punto di vista motorio e sensoriale per alcune patologie cronico-degenerative con fasi di remissione come ad esempio la sclerosi multipla). Sicuramente, quelle che potremmo definire disabilità più subdole sono quelle non visibili dall’esterno: la persona ha un’effettiva limitazione alla sua autonomia personale, alla sua libertà, ma questo non può essere percepito da un osservatore esterno, che tenderà ad avere aspettative che quella persona non potrà mai rispettare. Un esempio è costituito da disabilità psichiche: tutti i disturbi mentali, se raggiungono un livello di gravità tale da impedire il normale svolgimento di attività quotidiane, limitando la vita della persona e la sua libertà possono essere considerate disabilità.
Proviamo ad immaginare il senso di incomprensione percepito da queste persone: a nostro parere si sentono come un bambino, che giocando si immerge nelle sue fantasie offrendo all’adulto una tazza di tè invisibile, ma incontra un adulto talmente concentrato su di sé da non capire “la realtà” del bambino, che quindi rifiuta bruscamente l’offerta facendo notare al bambino “non c’è nessuna tazza”. Il problema è che la condizione del disabile non è una sua fantasia, è una realtà estremamente reale (ci scuserete la ripetizione, ogni tanto serve!).
I bambini suscitano a tutti tenerezza, anche il più burbero degli adulti di fronte a un bambino deluso dal suo comportamento aggiusta il tiro, costruendo un “tea party” immaginario degno della regina Elisabetta. Possiamo sentire, di solito, la delusione dei bambini e il loro sentirsi incompresi con un solo sguardo. Perché non riusciamo a farlo, la maggior parte delle volte, con le persone disabili? Eppure la loro realtà è molto più evidente e tangibile della fantasia dei bambini con i loro servizi da tè. La verità è che tutti siamo stati bambini e quel senso di delusione misto a tristezza e incredulità ce lo ricordiamo bene, ma non tutti siamo stati disabili per un periodo sufficientemente lungo e costrittivo da farci davvero capire cosa significhi. Questa, però, non dovrebbe essere una giustificazione che ci permetta di girarci dall’altra parte nel momento in cui assistiamo a queste “incomprensioni” o in casi più estremi vere e proprie discriminazioni (sebbene la maggior parte delle volte inconsapevoli). “Io non posso capirti” è il pensiero che ci balena in testa, è vero! Ma questo non significa che non potremmo fare lo sforzo di provarci!
Lo stereotipo e forse anche la poca conoscenza che si ha riguardo al tema delle disabilità da un lato ci tiene chiuse le porte di un mondo da scoprire, fatto di persone, che non possiamo effettivamente definire “come noi”, ma che non sappiamo come definire. Si tende a guardare alle persone disabili con compassione, tristezza, paura forse che all’improvviso la vita potrebbe essere con noi così “ingiusta” così come lo è stata con loro. Quello che non immaginiamo è la grandissima forza che queste persone spesso sviluppano, una tenacia che emerge proprio grazie alle difficoltà a cui sono quotidianamente esposti. La resilienza è una caratteristica psicologica che si sviluppa grazie alle difficoltà che la vita ci mette di fronte, non che si ha prima e a prescindere da queste. Sicuramente è molto più probabile che molte persone disabili siano più resilienti di noi. Un esempio è Madeline Stuart, prima modella Australiana con sindrome di down, che non si è fatta fermare dallo stigma sociale sul suo aspetto e ha inseguito il suo sogno con passo sicuro e deciso arrivando a calcare le passerelle di New York! Altro esempio, di fantasia stavolta, è la star Becky Jackson, cheerleader con sindrome di down, personaggio amatissimo nella serie tv Glee che andando contro ogni stereotipo arriva ad essere la “bulletta” della scuola che mette tutti in riga con un solo “passaggio sculettante” in corridoio.
Questi così come moltissimi altri (sportivi come Bebe Vio, scienziati come Steven Haukings, etc.) contribuiscono con il loro esempio a mostrare al mondo come la disabilità sia senz’altro una differenza, ma che differenza non è difetto, non è mancanza, non è meno, ma spesso è di più, molto di più di quello che potremmo immaginare.