Copenaghen, anni 20 del secolo scorso. Una coppia sposata di artisti, Einar e Gerda Wegener, vede sconvolti i propri equilibri quando Einar, inizia a vestirsi da donna traendone un enorme soddisfazione e benessere psicologico. Inizialmente la moglie è sconvolta da questa “novità” del marito, rifiutandola, ma nel momento in cui si rende conto che è un bisogno, una necessità per la persona con cui condivide la vita, accompagna Einar in un difficilissimo percorso che lo porta a diventare Lili Elbe. Nel 1930 il percorso ha il suo culmine con l’intervento chirurgico con cui Einar smette di essere biologicamente uomo e tramite la rimozione dei testicoli inizia la sua definitiva transizione in donna. Considerata l’epoca storica non vi stupirà sapere che il caso attirò enormemente l’attenzione pubblica, tanto da diventare oggetto di romanzi e film fino ai giorni nostri. Vi suonava familiare questa storia, non è vero? Molto probabilmente avrete visto o sentito parlare del film “The Danish girl”, nelle sale Italiane nel 2016, che con l’interpretazione magistrale di Eddie Redmayne racconta questa vicenda realmente accaduta che possiamo a tutti gli effetti definire storica.
L’evento storico è, chiaramente, il primo intervento chirurgico di cambio sesso, la rimozione dei testicoli. Lili ebbe però “fretta” di diventare definitivamente donna e si sottopose dopo poco ad una vaginoplastica che le fu fatale.
Sappiamo che le etichette non possono riassumere la complessità dell’essere umano, ma quando si ha molta confusione riguardo a degli argomenti ancora molto poco conosciuti possono essere utili a fare chiarezza…quindi: sapreste definire il problema di Einar/Lili, dargli un nome? Siamo sicuri che moltissimi definirebbero Lili un travestito (fino a prima dell’intervento), altri forse omosessuale, molti probabilmente transessuale. Chi avrebbe ragione?
Una persona che si sottopone a un intervento chirurgico, più varie cure e procedure ormonali, al fine di cambiare sesso è una persona transessuale. È bene specificare che non tutte le persone transessuali sentono la necessità di sottoporsi all’intervento di transizione, modificando i propri genitali, anzi! Moltissimi si identificano con il sesso opposto a quello biologico di appartenenza ma non si sottopongono mai all’intervento. Ciò dovrebbe farci riflettere molto: siamo abituati nella nostra società ad associare automaticamente ed inevitabilmente il sesso biologico con l’identità di genere. Il sesso biologico è quello che ci viene assegnato alla nascita sulla base del nostro corpo e in particolare dei nostri genitali. L’identità di genere è il sesso con cui la persona si identifica, in cui si riconosce. Nel momento in cui una persona nasce con un determinato sesso biologico (es maschio) ma si identifica con il sesso opposto (quindi femmina) si ha un disturbo psicologico ben preciso: la disforia di genere. Essendo un disturbo comporta chiaramente un disagio, disagio così intenso che porta addirittura a sottoporsi a un intervento molto doloroso e sicuramente non esente da rischi, oltre che a cure ormonali molto pesanti per il corpo, per il cambio di sesso. È il caso di Lili, la Danish Girl che trova il coraggio di esprimere liberamente chi è solo in età adulta. La disforia di genere però non “arriva” da un momento all’altro, come può arrivare una depressione: a differenza di moltissimi altri disturbi che possono manifestarsi in qualunque momento della vita, l’insorgenza è estremamente precoce, si ha quindi già da bambini. Chiaramente da piccoli non si ha ancora una consapevolezza tale da esperire un intenso disagio, requisito indispensabile per diagnosticare il disturbo, ma molto presto i bambini sono esposti ai tradizionali ruoli di genere, che abbinano determinate caratteristiche al maschile e altre al femminile. Un bambino quindi capisce molto presto cosa la società si aspetta da lui, attribuendo il ruolo di genere sulla base del sesso biologico ma senza minimamente considerare l’identità di genere. È così che una persona, anche se in età molto precoce, vive un disagio intenso dato dalla discrepanza tra richieste e aspettative della società, quello che il suo corpo gli impone e quello che sente dentro di sé, nella mente e nel cuore.
“Non giudicare un libro dalla copertina”, “l’apparenza inganna”. Quanta verità si cela a volte nei banali detti popolari. Sappiamo per esperienza personale che l’esterno non sempre corrisponde all’interno, che ciò che noi vediamo può ingannarci. Pensiamo banalmente di andare a comprare la frutta: sulla base di cosa la scegliamo? Quella “più bella”, ovvio. Per decidere quali mele comprare sicuramente ci orienteremo verso quelle più rosse, più grandi, senza ammaccature. Quante volte vi è capitato di aprire queste mele perfette fuori e trovarci il vermicello dentro? O che non sapessero proprio di nulla perché piene di pesticidi e sostanze chimiche varie? Ma d’altronde si sa…l’apparenza inganna! Come mai allora sembriamo dimenticarlo quando ci arroghiamo il diritto di giudicare una persona e il suo orientamento sessuale e soprattutto identità di genere basandoci su ciò che vediamo? Perché nel vedere un bambino in atteggiamenti “femminili” pensiamo subito che da grande sarà gay e non ci sfiora nemmeno per un attimo che la sua identità di genere possa essere diversa dal sesso biologico? Perché valutiamo solo ciò che possiamo vedere, il sesso biologico, e non ciò che non possiamo, l’identità di genere? Siamo, purtroppo, ancora enormemente influenzati dagli stereotipi sociali di genere che hanno dominato per secoli, ma che (concedeteci l’eufemismo) iniziano a puzzare di vecchio (o puzzare di mela marcia). Come vedrete però siamo in vena di porvi domande a cui non possiamo darvi ancora risposte ben precise, eccone un’altra: perché, ci stupiamo molto di più a vedere un bambino in atteggiamenti femminili e non una bambina in atteggiamenti maschili? In ogni famiglia, classe delle scuole elementari, squadra di nuoto, c’è quasi sempre la bambina che è denominata da tutti “un maschiaccio”. È comune, ma è per questo che non ci stupiamo? Assolutamente no. La nostra ipotesi è che per la società sia più accettabile che una donna aspiri a essere come un uomo piuttosto che il contrario…ah il sessismo…che brutta erbaccia difficile da estirpare! Ma questa è un’altra storia, coinvolta però indubbiamente nella disforia di genere.
La disforia di genere è, quindi, un disturbo determinato dalla marcata incongruenza percepita tra il genere biologico assegnato alla nascita e quello soggettivamente esperito. Si ha un forte desiderio di appartenere al sesso opposto che si manifesta specie nei bambini con una insistenza nel volersi atteggiare e vestire come le persone del sesso opposto. La sofferenza esperita è notevole. Da cosa deriva questa sofferenza? Sicuramente dall’impotenza, rabbia e frustrazione che una persona può sperimentare a causa del fatto che è nata “in un corpo sbagliato”. Siamo sicuri che sia tutto qui? Vorremmo raccontarvi la storia raccontata da fanpage.it (link al video in bibliografia) di Lori, bambina che quando viveva in Italia era scritta sul registro di classe e all’anagrafe con il nome di Lorenzo. La mamma di Lori non ha mai ostacolato la vera “natura” di sua figlia, assecondando il suo bisogno e desiderio di essere una femmina. Lori e la mamma vivono adesso a Valencia, dove il clima culturale nei confronti della comunità LGBT è molto più di apertura rispetto che in Italia, quindi in classe le amichette di Lori non si sono stupite dal sapere che una volta era un maschio, grazie anche alle spiegazioni prive di stereotipi che hanno saputo dare i loro genitori. Lori è una bambina transgender, non ha subito alcun intervento di cambio sesso (d’altronde è troppo piccola, forse lo farà in futuro, forse no) ma questo non deve interessarci; ciò che davvero ci interessa è che Lori è una bambina felice. Non soffre per essere nata biologicamente maschio, si comporta come si sente, è libera di essere ciò che si sente di essere (grazie alla famiglia e alla società). Lori potrebbe rientrare nella categoria di disforia di genere? Secondo i criteri diagnostici, le mere etichette forse si; secondo il buon senso che ogni psicologo deve avere no, Lori non soffre, non ha un problema. È con l’ultima domanda quindi, che vogliamo lasciarvi a pensare: certo, le etichette a volte chiariscono ciò che non conosciamo (esempio distinzione tra sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, ruolo di genere) ma non credete che, a volte, confondono e rendono complesse situazioni più semplici di ciò che immaginiamo?